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Prendersi cura significa avere consapevolezza di sé

ARTICOLO DI CONSUELO FARESE

Co-Founder La Happy Care

Prendersi cura di un altro significa prendersi cura di se stessi, significa aver consapevolezza di sé

“Chi sono io?” è una domanda che può avere molti significati e perciò molte risposte, tutte interessanti. È tuttavia una domanda che non ci facciamo spesso. Siamo impegnati in percorsi e in azioni che non necessitano una precisa riflessione e di volta in volta siamo chiamati a decisioni che reclamano una scelta veloce, una immediata risposta. Da una parte ci sentiamo dentro un processo che ha una sua necessità interna inderogabile, dall’altra ci sentiamo sfidati in decisioni che reclamano una veloce soluzione del problema che ci sta di fronte. Nessuna di queste due condizioni lascia spazio per una riflessione su di sé, eppure è da questa possibilità di riflettere che dipende il benessere nostro e dei nostri cari.

“Sono un figlio/una figlia attenta, una/un professionista di successo, un lavoratore esperto, una moglie/un marito affettuoso, un padre/una madre amorevole, un’amica/un amico fidato”.

Ciascuno di noi è immerso in una molteplicità di relazioni che lo definiscono, e da queste relazioni si lascia definire. Tutto sembrerebbe andare bene: tutti cerchiamo la felicità. Eppure compaiono i momenti di tristezza, malinconie immotivate. Ma sono proprio immotivate queste malinconie? Sono stati d’animo che fatichiamo a raccontare perché non sappiamo darne ragione, ma la ragione è l’unica componente delle nostre vite? La tristezza è una emozione che viene definita negativa, eppure come tutte le emozioni ci dice qualcosa di importante che è vitale interpretare per noi e per chi ci sta vicino.

Torniamo a chi siamo: innanzitutto siamo figli. Ebbene: cosa succede se un genitore è affetto da un deficit cognitivo che progredisce indebolendo la memoria e le competenze relazionali oltre che le capacità di compiere semplici azioni nella quotidianità? Lo scrittore Tahar Ben Jelloun racconta la sua esperienza in un libro che intitola “Mia madre, la mia bambina”. Titolo che rende bene il rovesciamento di ruoli che instaura la malattia.

Cosa ci succede quando pur essendo anagraficamente figli diventiamo via via sempre più coloro che si prendono cura di chi li ha generati? 

“Quali sono le mie emozioni? Di me che sono figlia e madre insieme?” Quali sono le emozioni di un marito che deve accudire in ogni necessità, fisiologica psicologica e sociale, chi prima era al suo fianco nella complicità e nella condivisione dei compiti?  Cosa si prova in quella improvvisa solitudine del prendersi cura di chi adesso vive in un mondo che è in qualche modo solo suo? 

Malinconia, tristezza, irritazione, rabbia sono le parole per dire stati specifico di un disagio non passeggero. Sono parole legate alla sfera delle emozioni, di un sentire che non possiamo impedirci ma possiamo imparare a governare per non esserne sopraffatti. Sono emozioni impegnative che dobbiamo riconoscere.

Empatia è un altro termine importante: appartiene alla sfera emotiva anch’essa e designa la capacità di comprendere l’altro, nella consapevolezza che possiamo essere un soggetto di cura se conosciamo le vie – e i rischi – dell’empatia.

Daniel Goleman ha scritto un libro dal titolo “Intelligenza emotiva” che si occupa di gioia ma anche di tristezza e di empatia.

Questo mio breve testo è un invito a iniziare un percorso di consapevolezza delle proprie emozioni per praticare stati di benessere, per sé e per i propri cari.

Se pensi ti serva aiuto per entrare in un percorso di consapevolezza per prenderti cura di te e della persona con demenza, contattaci.

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